Una seconda occasione

Lisa era seduta al bancone del “Viento Lindo”, un bar di Hatillo, in Venezuela. Dopo lo scandalo che aveva messo fine alla sua carriera di cantante lirica, Lisa aveva trovato lavoro come insegnante di canto. Le cose però non stavano andando per niente bene: più che un’opportunità, la tournée sudamericana con i suoi allievi si stava rivelando un problema. Senza darle spiegazioni, le avevano appena comunicato che lo spettacolo di quella sera era stato annullato e a lei era venuto un bisogno incontrollabile di bere. Al personale del teatro aveva chiesto dove si potesse bere del Martini Dry senza essere molestata e le avevano indicato il “Viento Lindo”, il bar più vicino al teatro. Era venerdì sera e stranamente il “Viento Lindo” era deserto. Dagli ingressi spalancati entravano i rumori e Lisa, guardando fuori, vedeva la strada illuminata dalla luce giallastra dei lampioni. C’era parecchio traffico, tanta gente che chiacchierava a voce alta mentre passeggiava sul marciapiedi, ma non entrava nessuno. Aveva smesso di piovere da circa un’ora e l’acquazzone aveva abbassato la temperatura e lavato via i miasmi di smog dalle strade, ma Lisa aveva comunque caldo. Seduta su di uno sgabello alto di legno che cigolava ad ogni suo movimento, stava sorseggiando il terzo Martini Dry. Dopo il sapore rancido dell’oliva del primo, Lisa aveva chiesto al barista di servirle i successivi Martini Dry senza oliva, con una spruzzata di limone. Stava pensando che il personale del teatro non era stato sincero a consigliarle quel bar e Lisa ne immaginò il motivo, data la poca distanza tra il bar e il teatro. Alle sue spalle, sulla pedana del karaoke, un tizio basso, baffuto e vestito come Fidel Castro, stava tentando per la quarta volta di cantare “La Bomba”. Come le accadeva sempre quando beveva, Lisa smetteva di parlare in inglese ed iniziava a biascicare il suo italiano da italo-americana di terza generazione. Aveva la convinzione che, così facendo, chi la ascoltava non capisse nulla di ciò che diceva e lei poteva permettersi di insultare tutti quanti senza conseguenze. Non era vero a New York dove lei viveva, né in Venezuela, a Hatillo e lo era ancora meno in quel caso. Il tizio era di origine italiana e si chiamava Raffaello Piras, ma si faceva chiamare Raf Pérez e formalmente gestiva una giostra in un barrio. In realtà, forniva copertura ai narcos, che usavano i cassoni sotto la sua giostra per stoccare le partite di cocaina in partenza per l’Europa. Lisa gli dava le spalle, ma ogni volta che Raf steccava, si voltava per insultarlo sottovoce a parole e fulminarlo con lo sguardo. Aveva già notato, nella penombra delle luci stile discoteca anni ‘80, una ragazza sui vent’anni che, sulle note della canzone, si dimenava di fronte a Raf. La ragazza si chiamava Maria e teneva in mano una bottiglia di Polar, una birra locale. Maria, Lisa, Raf e Carlos, il barista, erano le uniche persone all’interno del “Viento Lindo”. Oltre ad aver notato Maria e ad essersi fatta una pessima opinione su di lei, Lisa aveva anche già commentato con un lapidario “pedofilo!”, rivolto a Raf , quel che stava vedendo. Anche Raf si era accorto della donna robusta, con capelli e occhi scuri, seduta al bancone, con in testa un cappello viola, una via di mezzo tra la tuba di Slash, il chitarrista dei Guns N’Roses, e una di quelle che usava la regina Elisabetta d’Inghilterra. Raf aveva anche notato che lei stava bevendo un Martini Dry e si chiedeva dove il barista avesse trovato la bottiglia. Forse nello scantinato da cui, forse, proveniva anche quel cappello. E, forse, anche la donna che lo portava proveniva da lì. Lisa, all’ennesima stecca di Raf, decise di girarsi sullo sgabello scricchiolante per vedere meglio lo ‘spettacolo’ in corso. Mentre Raf cantava “Suavecito para abajo, para abajo, para abajo” Maria si abbassò, si girò e, con un colpo d’anca, fece sollevare la minigonna color ocra, mostrando a Raf il sedere, per nulla coperto dal tanga brasiliano, dello stesso colore della minigonna. Lui rise, si distrasse e steccò ancora una volta. Maria si rigirò e strizzò l’occhio a Raf. “Pedofilo uno e puttana l’altra!” commentò, questa volta ad alta voce, Lisa, dietro la quale Carlos il barista asciugava i bicchieri con uno straccio, fingendo di non esserci. “Pedofilo” suona identico sia in italiano che in spagnolo e a Maria, per capire che “puttana” in italiano significa “puta” in spagnolo, non servì nemmeno scomodare la sua scarsa conoscenza dell’italiano, che aveva acquisito frequentando Raf. Emise un grugnito più da demonio che da giovane hatillana e barcollò verso Lisa, che se ne stava appoggiata al bancone. Sollevò la bottiglia da cui stava bevendo, con l’intento di darla in testa a Lisa, mentre la birra gelata le colava giù per il braccio, sotto l’ascella. Nel momento in cui Maria uscì dalla penombra, Lisa notò il suo viso stravolto e le pupille dilatate. “L’hai drogata per scopartela?” gridò a Raf, che nel frattempo aveva bloccato Maria. “Non serve”, rispose Raf, strattonando Maria nel tentativo di farla calmare. “Y quién carajo eres tú?” sibilò Maria in faccia a Lisa, digrignando i denti. Il fiato di Maria puzzava di birra e fagioli. “Adesso te lo faccio sentire, chi sono” rispose Lisa, scendendo dallo sgabello e facendolo scricchiolare. Attraversò il locale, si avvicinò alla consolle, fece ripartire la base della canzone e iniziò a cantare. Tre minuti e venti secondi dopo, la durata dell’esibizione, Maria dormiva su un divanetto, di fianco a Raf che chiuse la bocca, rimasta spalancata già al primo vocalizzo di Lisa. Cantando, Lisa aveva quasi smaltito i drink. “Canti benissimo, ma qui al ‘Viento Lindo’ non cerchiamo una cantante” affermò Raf, appoggiando le braccia aperte sullo schienale del divanetto, di fianco a Maria. “Si può sapere, che cosa ci fai qui?” chiese Raf, mentre si sistemava diritto sul divano. Lisa non aveva certo la freschezza dei vent’anni di Maria e Raf non cercava mai in una donna l’intelligenza, ma inspiegabilmente trovava Lisa interessante. “Potrei farti la stessa domanda, ma immagino che la risposta sarebbe una bugia.” replicò Lisa, restando in piedi davanti al divanetto. “Stavo cercando la seconda occasione della mia vita, portando gli allievi della scuola di canto in tournée. Stasera avremmo dovuto esibirci al ‘Naranjal’, il teatro qua dietro, ma lo spettacolo è stato annullato senza motivo. Sono Lisa Peel, la famosa cantante lirica. Non mi riconosci?” Raf fece un cenno con la testa per dire che non la riconosceva. Era stato lui a mandare i suoi tirapiedi dal direttore del teatro, troppo spaventato per opporsi, per far annullare lo spettacolo. Maria nel sonno stava dicendo parole senza senso. “Come vedi” disse Raf, alzandosi in piedi e indicando l’ingresso “anche se fuori c’è pieno di gente, non entra nessuno. Quindi, Lisa Peel, quel che sto per dirti non è una bugia e nemmeno un segreto, sei forse l’unica in tutta Hatillo a non saperlo. Tra un’ora, qui dentro potrebbe succedere di tutto. Potrei morire io, potrebbe morire Maria e, se resti, potresti morire tu, anche se non c’entri nulla. Il barista tra poco se ne andrà, quindi non rischia nulla.” Raf rise sguaiatamente “Conviene che te ne vada anche tu. Lei” continuò indicando Maria “ha vent’anni e voleva rubare una partita di coca. Voleva fregare me, che sono il custode della merce e ho quasi settant’anni. Adesso, devo riuscire a convincere ‘loro’ che l’idea di vendere alla concorrenza la coca è della tossica che rantola sul divanetto”
Lisa vide l’opportunità di risolvere i problemi di Raf e di Maria, e di esaudire il suo desiderio di essere ricordata come una grande artista. “Sanno che aspetto ha Maria?” chiese.
“No” rispose Raf.
“Sanno quanti anni ha?”
“Sanno solo che è una donna”
Lisa mostrò a Raf le cicatrici del tentato suicidio. “Guarda i miei polsi. Sono sopravvissuta, ma la mia seconda occasione è andata a farsi fottere. A questo punto, posso solo sperare di essere ricordata come un mito, ma so che occorre che tutti mi credano morta”. Sorrise, indicando Maria “dacci un’altra possibilità”
“Sei ubriaca” commentò Raf, scrollando la testa.
Lisa lo implorò: “Credo che riuscirò a convincerli a non ammazzare nessuno. Lasciami telefonare per far nascondere Maria” proseguì Lisa “ho visto come muove il culo quando balla, riuscirà a cavarsela benissimo nel mondo dello spettacolo”.
“O sei ubriaca, o sei pazza” rispose Raf.
“Invece, sarò molto utile, per i vostri traffici. Mark Ryard, il mio ex marito, deve farsi perdonare molte cose da me, è un attore molto conosciuto qui in Venezuela, ha agganci politici molto in alto”.
Raf fece un cenno con le mani per dire che non lo conosceva “non sono mai andato al cinema”.
“Io sono più credibile, di una che la coca se la pippa anziché venderla” replicò Lisa.
In quel momento, il barista salutò Raf e uscì. In strada non c’era più nessuno e i rumori del traffico arrivavano smorzati. Raf ci mise un paio di minuti a convincersi che Lisa aveva ragione.
“Va bene, abbiamo meno di un’ora per sistemare la faccenda”.
Fuori aveva ricominciato a piovere.

Quattro giorni dopo, Mark Ryard, seduto nel suo appartamento a Hempstead, di fronte alla grande vetrata con vista sul lago, stava leggendo la cronaca nera sul Newsday. “Lisa Peel, la cantante lirica, rimasta coinvolta una decina d’anni fa nello scandalo della Metro Opera House e sopravvissuta al tentativo di suicidio, è scomparsa durante la tournée dei suoi allievi della Juilliard School. E’ stata vista per l’ultima volta quattro giorni fa al teatro ‘Naranjal’ di Hatillo, in Venezuela, nel quale si sarebbe dovuta esibire con i suoi allievi. Abbiamo contattato l’ex marito, l’attore Mark Ryard, il quale …” Mark smise di leggere, piegò la copia del Newsday e sorrise pensando a Lisa. “Non sei in prima pagina come speravi, Lisa, ma ti prometto che entro una settimana, tutti parleranno di te come della più grande cantante lirica di tutti i tempi” sussurrò guardando l’orizzonte verso sud, attraverso la vetrata.

Racconto pubblicato sull’antologia “Racconti come fiori di carta” del concorso letterario “Scrivere che passione” vol.3 2024

Quando mi dirà “grazie”

Un albero non si può sradicare da sé, per staccarlo dal terreno ci vuole un temporale, un nubifragio, qualche evento esterno. Ci sono persone che sono come gli alberi: vorrebbero andarsene, ma hanno radici profonde e sperano in una forza che da fuori le strappi ai ricordi e alla loro terra, perché da sole non riescono a farlo. Altre persone non hanno radici e si muovono libere, si allontanano dai ricordi e li perdono per sempre senza curarsene, con gioia.
Gli alberi del corso sotto casa mia sono gli stessi di cinquant’anni fa, li ho visti crescere, impercettibilmente invecchiare giorno dopo giorno. Solo quando guardo le vecchie foto che mi ritraggono, con quegli alberi sullo sfondo, noto la differenza. La mia vecchia automobile dorme sempre lì, tra gli alberi, l’autorimessa è scomoda da raggiungere e piena di oggetti che si sono accumulati nel tempo. Esco di casa e attraverso la strada sulle strisce pedonali; un furgone si ferma per farmi passare, ringrazio anche se non sono tenuto a farlo: si dice “grazie” e si risponde “prego”. Fa freddo, ma il parabrezza dell’automobile fortunatamente non è ghiacciato. La apro, salgo, la metto in moto e parto. Tre curve e sono già arrivato: le mie radici sono lunghe cinquecento metri circa.
Mi fermo con l’automobile sotto la sua abitazione, lascio il motore acceso e il riscaldamento al massimo, così l’abitacolo si scalda un po’. Cortesia e gentilezza, “grazie” e “prego”. Mentre aspetto, esco dall’automobile, non mi piace starci dentro quando è ferma. Dopo qualche minuto, lei scende con un piattino di cibo per i tre gatti randagi del cortile. “È quello che hanno avanzato i miei due”, mi dice. Lo mette a terra appena dentro il cortile e sale sull’automobile. Le chiedo se ha con sé le pastiglie del mattino. Apre la borsetta e controlla, non è sicura. “Le ho già prese, con due biscotti e il caffelatte”, risponde. Dopo dovrò quindi passare da casa sua per controllare se ha detto la verità. Aspetto pazientemente che si metta la cintura. La aggancia, mi guarda e sorride. Prima o poi, non si ricorderà più chi sono. “Puoi partire”, dice, e io parto. Guido più concentrato del solito, mi sembra che lei diventi ogni giorno sempre più fragile e temo che un urto possa peggiorare il suo stato. Il cielo di questo inverno improbabile ha un tono meno grigio del solito. Lei lo guarda e dice “c’è aria di neve”, come fa tutti i giorni da mesi, ma sono ormai tre anni che non nevica, qui in pianura. Lei ha visto nevicate che io non conosco, ma non me le ha mai narrate, probabilmente perché non le ricorda più. Nemmeno io ricordo tutte le mie, e non gliene ho mai raccontata alcuna. Forse dovrei, finché c’è tempo, anche se non ha senso raccontarle qualunque cosa, non ha mai avuto senso farlo, nemmeno quando io ero piccolo e lei era giovane.
La concentrazione elevata che mantengo quando guido con lei al fianco, è anche una scusa per non parlare. Guardo dritto dinanzi all’automobile, ma sento che lei mi osserva, si aspetta che mi volti a guardarla. Al solito semaforo, i ragazzi chiacchierano aspettando il verde per attraversare e andare a scuola. “Chissà se troveranno tutti lavoro” dice. A volte ho il sospetto che parli soltanto per avere un’interazione con me, per tentare di recuperare un rapporto tra noi che in realtà non c’è mai stato, ma forse è solo una mia sensazione. Qualche giorno fa, ho provato a spiegarle cosa mi sta accadendo. Mi aspettavo perlomeno un cambio di espressione del volto, o addirittura che mi dicesse la sua opinione. Invece, mi guardava come se stesse pensando ad altro, come ha sempre fatto, ma con cortesia e gentilezza, perché “si dice sempre ‘grazie’ e si risponde ‘prego’ “. Gli imbarazzanti quindici minuti del viaggio sono finiti, trovo un posto per l’automobile proprio di fianco all’ingresso dell’ospedale. Scende e mi aspetta, non ricorda mai da che parte deve andare. La accompagno dentro al centro diurno, o asilo nido per anziani, come lo chiamo io, e le do appuntamento per il pomeriggio. Adesso devo passare da casa sua per cercare il barattolo delle compresse del mattino, sperando di trovarlo vuoto.
Risalgo in automobile, in silenzio. Il viaggio di ritorno da solo è più leggero, anche se è l’ora di punta e c’è molto traffico. Cerco di scrollarmi di dosso la sensazione di vuoto assoluto che mi ha riempito l’anima accendendo la radio e sintonizzandola sulla mia stazione preferita che fa musica anni ottanta. Nessun bla bla bla da deejay, proprio non ho voglia di sentire nessuno che parla, solo musica. Parcheggio di fronte al condominio dove abita, salgo le scale ed entro in casa; sul tavolo del soggiorno ci sono le tre scatole di latta dove conserva le vecchie fotografie. Ne ha sempre qualcuna appiccicata ai mobili e le cambia ciclicamente in base ad un criterio che ignoro. So che lì dentro, tra altri mille strati di memoria, ci sono fotografie che mi ritraggono. Vorrei ritrovare, prima che si perda per sempre, una fotografia a cui sono affezionato: quella in cui, bambino, ero davanti all’idroscalo, con un idrovolante sullo sfondo, tantissimi anni fa. Ma so che aprire quelle scatole a volte mi turba, dipende da ciò che trovo. L’ultima volta che le ho aperte ho visto la foto della mia classe di prima elementare. Quella è l’ultima foto in cui sorrido da bambino spensierato. Provai più volte, in quegli anni, a spiegarle il mio mondo e il disagio che provavo nel viverci, di quanto mi sentivo inadatto, dell’aiuto di cui avevo bisogno, ma invano. Anche allora, mi ascoltava, con cortesia e gentilezza, ma pensava ad altro. Smisi presto di comunicare con lei e con mio padre, era inutile. Appena potei farlo, intorno ai diciannove anni di età, me ne andai di casa e per decenni mi rinfacciò che me ne ero andato perché con loro non mi trovavo bene. Non mi chiese mai quale fosse stato il vero motivo.
Il barattolo delle compresse del mattino l’ho trovato, ed è fortunatamente vuoto per davvero. Accarezzo i suoi due gatti, la casa è in ordine, la colf lavora bene. Esco e già penso che tra poche ore dovrò andarla a riprendere. Vorrei gridarle tutta la mia rabbia per gli errori fatti e non corretti, sia miei che suoi. Invece, farò come sempre: mi tratterrò, con cortesia e gentilezza, perché mi ha insegnato a farlo, con i “grazie” e con i “prego”, perché non ha senso ormai rinfacciarle qualunque cosa, non ha mai avuto senso farlo. So già che, quando passeremo accanto al naviglio, mi dirà, come fa tutti i giorni, che quando era bambina abitava in una casa a Milano in via Luciano Morelli 28 e che i bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale la distrussero. So anche che, quando scenderà dall’automobile, sotto casa sua, mi dirà “grazie”. E io la guarderò, come ha sempre fatto lei, esattamente nello stesso modo e risponderò “prego” pensando ad altro, pensando che non vorrei essere lì.

Racconto pubblicato sull’antologia “La Parola” del concorso letterario “Caratteri di Donna” ed.2023