Un albero non si può sradicare da sé, per staccarlo dal terreno ci vuole un temporale, un nubifragio, qualche evento esterno. Ci sono persone che sono come gli alberi: vorrebbero andarsene, ma hanno radici profonde e sperano in una forza che da fuori le strappi ai ricordi e alla loro terra, perché da sole non riescono a farlo. Altre persone non hanno radici e si muovono libere, si allontanano dai ricordi e li perdono per sempre senza curarsene, con gioia.
Gli alberi del corso sotto casa mia sono gli stessi di cinquant’anni fa, li ho visti crescere, impercettibilmente invecchiare giorno dopo giorno. Solo quando guardo le vecchie foto che mi ritraggono, con quegli alberi sullo sfondo, noto la differenza. La mia vecchia automobile dorme sempre lì, tra gli alberi, l’autorimessa è scomoda da raggiungere e piena di oggetti che si sono accumulati nel tempo. Esco di casa e attraverso la strada sulle strisce pedonali; un furgone si ferma per farmi passare, ringrazio anche se non sono tenuto a farlo: si dice “grazie” e si risponde “prego”. Fa freddo, ma il parabrezza dell’automobile fortunatamente non è ghiacciato. La apro, salgo, la metto in moto e parto. Tre curve e sono già arrivato: le mie radici sono lunghe cinquecento metri circa.
Mi fermo con l’automobile sotto la sua abitazione, lascio il motore acceso e il riscaldamento al massimo, così l’abitacolo si scalda un po’. Cortesia e gentilezza, “grazie” e “prego”. Mentre aspetto, esco dall’automobile, non mi piace starci dentro quando è ferma. Dopo qualche minuto, lei scende con un piattino di cibo per i tre gatti randagi del cortile. “È quello che hanno avanzato i miei due”, mi dice. Lo mette a terra appena dentro il cortile e sale sull’automobile. Le chiedo se ha con sé le pastiglie del mattino. Apre la borsetta e controlla, non è sicura. “Le ho già prese, con due biscotti e il caffelatte”, risponde. Dopo dovrò quindi passare da casa sua per controllare se ha detto la verità. Aspetto pazientemente che si metta la cintura. La aggancia, mi guarda e sorride. Prima o poi, non si ricorderà più chi sono. “Puoi partire”, dice, e io parto. Guido più concentrato del solito, mi sembra che lei diventi ogni giorno sempre più fragile e temo che un urto possa peggiorare il suo stato. Il cielo di questo inverno improbabile ha un tono meno grigio del solito. Lei lo guarda e dice “c’è aria di neve”, come fa tutti i giorni da mesi, ma sono ormai tre anni che non nevica, qui in pianura. Lei ha visto nevicate che io non conosco, ma non me le ha mai narrate, probabilmente perché non le ricorda più. Nemmeno io ricordo tutte le mie, e non gliene ho mai raccontata alcuna. Forse dovrei, finché c’è tempo, anche se non ha senso raccontarle qualunque cosa, non ha mai avuto senso farlo, nemmeno quando io ero piccolo e lei era giovane.
La concentrazione elevata che mantengo quando guido con lei al fianco, è anche una scusa per non parlare. Guardo dritto dinanzi all’automobile, ma sento che lei mi osserva, si aspetta che mi volti a guardarla. Al solito semaforo, i ragazzi chiacchierano aspettando il verde per attraversare e andare a scuola. “Chissà se troveranno tutti lavoro” dice. A volte ho il sospetto che parli soltanto per avere un’interazione con me, per tentare di recuperare un rapporto tra noi che in realtà non c’è mai stato, ma forse è solo una mia sensazione. Qualche giorno fa, ho provato a spiegarle cosa mi sta accadendo. Mi aspettavo perlomeno un cambio di espressione del volto, o addirittura che mi dicesse la sua opinione. Invece, mi guardava come se stesse pensando ad altro, come ha sempre fatto, ma con cortesia e gentilezza, perché “si dice sempre ‘grazie’ e si risponde ‘prego’ “. Gli imbarazzanti quindici minuti del viaggio sono finiti, trovo un posto per l’automobile proprio di fianco all’ingresso dell’ospedale. Scende e mi aspetta, non ricorda mai da che parte deve andare. La accompagno dentro al centro diurno, o asilo nido per anziani, come lo chiamo io, e le do appuntamento per il pomeriggio. Adesso devo passare da casa sua per cercare il barattolo delle compresse del mattino, sperando di trovarlo vuoto.
Risalgo in automobile, in silenzio. Il viaggio di ritorno da solo è più leggero, anche se è l’ora di punta e c’è molto traffico. Cerco di scrollarmi di dosso la sensazione di vuoto assoluto che mi ha riempito l’anima accendendo la radio e sintonizzandola sulla mia stazione preferita che fa musica anni ottanta. Nessun bla bla bla da deejay, proprio non ho voglia di sentire nessuno che parla, solo musica. Parcheggio di fronte al condominio dove abita, salgo le scale ed entro in casa; sul tavolo del soggiorno ci sono le tre scatole di latta dove conserva le vecchie fotografie. Ne ha sempre qualcuna appiccicata ai mobili e le cambia ciclicamente in base ad un criterio che ignoro. So che lì dentro, tra altri mille strati di memoria, ci sono fotografie che mi ritraggono. Vorrei ritrovare, prima che si perda per sempre, una fotografia a cui sono affezionato: quella in cui, bambino, ero davanti all’idroscalo, con un idrovolante sullo sfondo, tantissimi anni fa. Ma so che aprire quelle scatole a volte mi turba, dipende da ciò che trovo. L’ultima volta che le ho aperte ho visto la foto della mia classe di prima elementare. Quella è l’ultima foto in cui sorrido da bambino spensierato. Provai più volte, in quegli anni, a spiegarle il mio mondo e il disagio che provavo nel viverci, di quanto mi sentivo inadatto, dell’aiuto di cui avevo bisogno, ma invano. Anche allora, mi ascoltava, con cortesia e gentilezza, ma pensava ad altro. Smisi presto di comunicare con lei e con mio padre, era inutile. Appena potei farlo, intorno ai diciannove anni di età, me ne andai di casa e per decenni mi rinfacciò che me ne ero andato perché con loro non mi trovavo bene. Non mi chiese mai quale fosse stato il vero motivo.
Il barattolo delle compresse del mattino l’ho trovato, ed è fortunatamente vuoto per davvero. Accarezzo i suoi due gatti, la casa è in ordine, la colf lavora bene. Esco e già penso che tra poche ore dovrò andarla a riprendere. Vorrei gridarle tutta la mia rabbia per gli errori fatti e non corretti, sia miei che suoi. Invece, farò come sempre: mi tratterrò, con cortesia e gentilezza, perché mi ha insegnato a farlo, con i “grazie” e con i “prego”, perché non ha senso ormai rinfacciarle qualunque cosa, non ha mai avuto senso farlo. So già che, quando passeremo accanto al naviglio, mi dirà, come fa tutti i giorni, che quando era bambina abitava in una casa a Milano in via Luciano Morelli 28 e che i bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale la distrussero. So anche che, quando scenderà dall’automobile, sotto casa sua, mi dirà “grazie”. E io la guarderò, come ha sempre fatto lei, esattamente nello stesso modo e risponderò “prego” pensando ad altro, pensando che non vorrei essere lì.
Racconto pubblicato sull’antologia “La Parola” del concorso letterario “Caratteri di Donna” ed.2023